La bellezza e la poesia di Gilbert Paul

La bellezza e la poesia.  Ho scelto deliberatamente di affrontare questi due aspetti del lavoro di Gilbert Paul - che, il 16 luglio, dopo un anno e mezzo, ho ritrovato alla sua importante “personale” a Cabris, nello spazio perfetto della Chapelle Sainte Marguerite - in attesa che il dibattito attorno all'opera di questo Artista, dallo stile puramente francese ma dal linguaggio così approfondito da esprimere compiutamente la complessità dell'essere, dia luogo ad una più importante discussione.

La bellezza, caratterizzata dalla forza del segno e del colore.

In Gilbert Paul le tinte non sono sempre quelle più somiglianti ma sempre quelle più adatte ad esprimere sensazioni. Allo stesso modo la rappresentazione dei soggetti non consiste nella forma definita e costante universalmente accertata. Ma è libera, autonoma, senza obbligo di esatta riconoscibilità figurativa.

La natura, ad esempio, è schematica ma i suoi dettagli sono selettivi. Si potrebbe quasi dire che alla prima ed iniziale natura fatta di alberi e piante radicate nel terreno Gilbert Paul abbia sostituito una seconda natura che trova il suo fondamento nella superficie dei suoi quadri.

Coucher de soleil sur les rochers

"Coucher de soleil sur les rochers"

Opere che, a ben guardare, da strumento di rappresentazione diventano strumento di riproduzione. Difatti come le forme vegetali proliferano e si espandono fino ai confini del loro spazio terricolo anche la natura di Paul vuole toccare i confini del suo nuovo mondo: lo spazio aperto del quadro.

Niente la può fermare. Neppure la geometria dei neri impiegati per delimitare gli elementi e le figure. Questi, pur non comportando l'illusione della profondità, diventano un altro modo per unire i piani dell'immagine. In questo senso acquistano una funzione dinamica; sono come una porta e quindi, più che da barriera, funzionano da spazio di ingresso.

 Questa accuratezza creativa è anche un invito poetico. La poesia data dall'esperienza emozionale e spirituale della realtà, così come la sperimenta l'Artista. Dipinge ciò che sente, esattamente come il Poeta canta ciò che vede. Entrambi, svelano quello che è sotto gli occhi di tutti ma nessuno sa riconoscere, perché nessuno, a differenza dell'Artista o del Poeta, sa portare nella vita quotidiana le forme simboliche. E le forme simboliche di Gilbert Paul vivono intensamente.

Paul ha sviluppato un processo di materializzazione e di evidenziamento della luce mediante l'affermazione di timbri squillanti di colore, bloccati o raffreddati da tonalità più scure, che danno alla sua opera una concretezza quasi filosofica. Quella di chi riconosce dietro la natura l'essenza della vita. Il risultato è un atteggiamento verso l'Arte vista come un procedimento per rendere visibile l'invisibile.

In questo consiste la poetica di Gilbert Paul.

Questo ancora oggi è il movimento migliore dell'Arte europea. Bellezza e Poesia.

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GILBERT PAUL. Sentimenti sotto il segno del Vento

Si dice che ogni anima si sceglie la vita che le tocca.
Secondo il Mito a ciascuna, poi, spetta in abbinamento un senso di individualità del tutto particolare perché le faccia da guardiano e l'aiuti a compiere il destino da lei stessa prescelto. In modo che tutti gli eventi di una vita abbiano una forma compiuta comprendente quei limiti che non si possono oltrepassare e la fine stabilita per ciascuno.
Non sempre questa forma compiuta si vede nella realtà fisica. Non sempre questo inimitabile motivo viene scoperto dall'interessato. Nondimeno diventa visibile quando dietro la pagina della vita si accende la lampada dell'Arte .
È stato così, guardandolo nella controluce dell'Arte di una inaspettata quanto strepitosa esposizione a Theoule sur Mer, tenutasi nell'aprile di quest'anno, che ho scoperto il mistero di Gilbert Paul.
Gilbert Paul. Un pittore che si è definito così: “ Io sono stato influenzato da Van Gogh fra gli altri e mi servo di questa influenza per situare una storia attraverso un posto, un luogo portatore di emozioni e sono queste emozioni che io ricreo con il mio lavoro.”.
Eppure Gilbert Paul non è solo questo.
Ci sono molte più cose nelle sue opere di quanto ammetta quella sua rapida definizione.
Certo, ci sono tante piccole spinte che ricordano dei momenti specifici, delle immagini note o immaginarie, dei colori precisi, (il giallo è davvero lo stesso di Van Gogh) che danno la sensazione irripetibile di una emozione, la fascinazione di un contatto con l'impressionismo, tutto proposto con la soggettività efficace dei segni stilizzati, con l'eloquenza dell'arte naif. Ma c'è di più.

C'è un bisogno pressante ed improvviso, un curioso insieme di circostanze, una segreta e speciale grandezza che lotta per esprimersi.
Tutta l'opera di Gilbert ha per argomento la potenza di questa sensazione. La sensazione che ognuno di noi è chiamato a percorrere una certa strada, che ognuno di noi fin dall'inizio ha una forma compiuta. Questa immagine innata non è nient'altro che una vocazione. La vocazione di Gilbert Paul è quella di rendere la pittura vivente, di dare energia agli elementi.

“Il Vento si alza” - “Le Vent se lève” è sicuramente il quadro che ratifica la pienezza del movimento della natura.

Perché se il Vento ha mai avuto una base su cui poggiare è senza dubbio questo dipinto, come senza dubbio il mio ricordo poggia sul Vento.

Io vengo da Genova, una città di pietra grigia, dura, indocile e contraria.
La si ama volendola odiare. La si odia volendola amare.
Forse per questo a Genova tutto è posseduto dal Vento. C'è sempre Vento. Anche quando tutto all'intorno sembra calma piatta.
Si svolta un angolo, si scollina una rampa ed il Vento è lì con il suo corpo, da odiare se si può o da amare controvoglia. In ogni modo da ammirare in ogni suo aspetto.
Gelido, tagliente, che penetra nelle ossa ammaccandole, dall'autunno all'inverno.
Umido, logorante, stressante, nella buona stagione.
Proprio come nel “Le Vent se lève” di Gilbert Paul. Mai come in questo quadro Vento è stato così Vento, foglie così foglie, natura così natura.
Pare di udire il suo suono strascicato quando il Vento la agita. E di stare a Genova, di sentire la stessa atmosfera, di vedere la stessa luce e pensare: ecco chi è Gilbert Paul; un artista capace di rappresentare sentimenti di unicità e di grandezza rivolgendosi direttamente all'inquietudine dell'anima dei suoi osservatori.
Nel mio caso, sotto il segno del Vento.

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Il Natale di Genova

Per capire, bisogna tornare all'inizio.
L'inizio della storia di Genova si trova in un monumento che è a poche miglia dalla città, in un posto raggiungibile solo per mare: l'Abbazia di S. Fruttuoso di Camogli.
Il massimo che la Genova migliore, quella potentissima medioevale decisa a dominare il Mediterraneo - Pisa, Corsica e Sardegna comprese - ha saputo produrre.
Se ne intuisce la forza, immediatamente, all'apparire improvviso dello stupendo edificio, etico e civilissimo, posto proprio a pelo d'acqua al centro di una inquadratura incredibilmente suggestiva.
Guardando in alto è possibile scorgere i contorni della balconata di roccia che lo sovrasta. Scendendo con lo sguardo si percepisce la ripidezza delle pareti a strapiombo nascoste da una vegetazione lussureggiante che, digradando fino al mare, avvolge su tre lati rendendola invisibile da tutte le parti, fuorché di fronte, l'Abbazia.
Il forte contrasto ottico fra lo splendore dell'edificio, che riflette la luce dello specchio d'acqua che gli sta d'innanzi, e la sagoma scura di questa sua quinta naturale, danno l’impressione che l'Abbazia sia come sollevata da terra, quasi a volersi distaccare dalla realtà apparente. In questo modo, con la sua struttura racchiusa rigidamente dalle alte pareti della montagna, si carica di un valore espressivo tutto accentrato sullo spazio interno, assumendo il ruolo di un area magica.
Un simbolo.

Il simbolo della gloria e del potere: quelli di una Città padrona assoluta a casa sua.

Allora, non si può capire Genova se non si è stati all'Abbazia di S. Fruttuoso di Camogli. Come non si può capire l'Abbazia S. Fruttuoso di Camogli se non la si vede comparire nella luce livida, nell'aria convulsa e tempestosa di una giornata di burrasca mentre dal nero del mare proviene un rombo misterioso e suggestivo molto simile ad un cupo lamento; è la voce di Genti e culture antiche.
É la voce dei padroni dell'Abbazia.
Entrandoci, nell'Abbazia, accompagnati da questa visione fascinosa, si cammina come in un grande scenario dove ogni ciottolo, ogni muro, ogni arcata, mettono il visitatore in comunicazione con la storia. C'è qualcosa di intenso e spontaneo, di fortemente intellettuale, che viene dal profondo dell'animo di questa costruzione e che ben si accorda con lo spirito di quelli che furono fra i più potenti del mare e che ora, lì, riposano in pace.

Per loro, i contenuti erano sempre più importanti delle condizioni e più forti delle conclusioni.
Così come non concedevano soluzioni di ripiego alla loro coscienza, non ne ammettevano nelle loro cose. Forse per questo a cinque anni dal principio del Trecento, nella pietra bianca e nera del marmo e dell'ardesia, hanno inciso le loro epigrafi con gli stessi caratteri che usiamo noi oggi. Perché erano convinti di arrivarci fino a noi.
Con il diritto ad esistere per sempre con le facce che avevano.
Facce che non scherzavano per niente. Provavate un po' a non pagarli.
O anche solo a non farglieli gli Auguri.

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Senza Pietà

Sabato 29 marzo sono stato al Vernissage dell'esposizione "O sole mio"

 mostra personale di David Ancelin in programma dal 1 aprile al 3 maggio alla Galleria Eva Vautier di Nizza.

Per me, che considero Arte soprattutto ciò che squarcia il velo sul futuro, rappresentando ciò che sarà o che potrebbe essere, David Ancelin è sicuramente uno dei migliori artisti contemporanei.
Suoi lavori sono presenti al Mamco di Ginevra, espone stabilmente a Parigi ed è rappresentato a Nizza dalla Galleria Vautier ed a Pechino dalla Jaili Gallery.
Erano poco più di due anni che non lo incontravo di persona. L'avevo lasciato sul finire del 2011 in uno degli spazi dell'Atelier Spada di Nizza alle prese con lo studio di "Deep Blue" (Profondo blu) un mosaico in pasta di vetro riproducente un piano d'acqua dal quale fuoriesce un getto aperto alla sommità come se vi fosse appena caduto qualcosa.
Qualche settimana prima, con "Chinese Rock", un prodigioso allestimento, visionario e profetico1, aveva attraversato da protagonista "La sculpture autrement".

Una rassegna delle migliori creazioni artistiche sulla Costa Azzurra lungo 60 anni, organizzata dalla città di Mougins, in collaborazione con i Musei delle Dipartimento delle Alpi Marittime, nella quale erano rappresentati tutti i più grandi artisti del Novecento ed i migliori degli anni 2000.

L'avevo conosciuto nel 2008 quando, giovanissimo, era venuto in Italia, a Deiva Marina, per lavorare in un progetto sperimentale "DeivArte" messo in piedi coraggiosamente da quella Comunità.
Era già bravo. Si capiva che sarebbe diventato un artista importante.
A Mougins era già importante. L'altra sera a Nizza ho visto un grande artista. Sulla strada per diventare un artista monumentale. Non per caso l'esposizione "O sole mio" si è tenuta alla Galleria di Eva Vautier, la figlia di Ben Vautier.
Tutti riconoscono la grandezza internazionale di Ben, noto al grande pubblico a partire dal 1960 soprattutto per le sue "scritture" declinate in diverse forme e per aver fatto parte del gruppo "Fluxus". Un movimento mirato a sottolineare quanto la quotidianità e la banalità della vita di ogni individuo possano essere intese come evento artistico.
Un obiettivo, quello dell'arte innovativa, perseguito con decisione da Ben il quale di sé stesso una volta ha detto : "Mi piacerebbe che si dicesse un giorno che ero necessario in un certo momento per produrre una nuova situazione".
Proprio così, perché il vero artista non è un creativo è un creatore.
Ha delle inclinazioni. È guidato da istanze culturali.
Allora, nella sera di Nizza si capisce che David Ancelin ha quell'esprit che è stato proprio di Ben. Come il suo illustre predecessore dà spazio allo spirito del tempo, a quei fenomeni di cambiamento che senza di lui non sarebbero mai arrivati all'attenzione del pubblico. Forse con la stessa flessibilità, forse con la stessa emozione, tuttavia con almeno una differenza.
L'assenza di Pietà.
L'arte francese, non solo nei grandi artisti della generazione risalente agli anni ‘70, ha sempre avuto come connotazione comune quella di voler portare lo spettatore verso la contemplazione della differenza, partendo da un atteggiamento protettivo che ricordava quello entusiastico dell'uomo che ha fiducia nella Pietas.
In David Ancelin non ho visto cedimenti al sentimentalismo.
Nel suo lavoro c'è la costruzione paziente, c'è la tensione salutare dello sforzo, c'è la freddezza del calcolo, c'è l'armonia delle composizioni, c'è il nesso tra cosa e cosa, c'è un'intima allegria, ci sono delle possibilità, dei contrappesi per lo spettatore, ma non c'è la Pietà.
Non c'è, perché sarebbe inutile per raccontare il nostro universo in fuga, un palcoscenico dove ogni uomo non lascia di sé che misere reliquie mentre le sue speranze se ne stanno andando in pezzi in maniera confusa ed umiliante.

Ho detto all'inizio che per me Arte significa soprattutto ciò che squarcia il velo sul futuro, rappresentando ciò che sarà o che potrebbe essere. Allora se si vuole tentare di capire quali sono e quali saranno le sfide che ci attendono in questa "età globale", in questa epoca di cloni, di repliche bisogna innanzi tutto avere il coraggio di assumere analiticamente e padroneggiare la sproporzione esistente fra l'uomo ed il mondo dei prodotti dell'uomo e di affrontare una volta per tutte il conflitto fra il sistema dei valori e la loro traduzione esistenziale.
In altri termini: se si vuole affermare sé stessi di questi tempi è necessario essere presenti.
David Ancelin non si sottrae. La sua opera è insieme un invito ed una risposta alla chiamata di responsabilità. Uno specchio che si allarga a riflettere direttamente la comprensione di complicate e affascinanti differenze che non possono essere ignorate da chi sia aperto ai flussi degli accadimenti.

É clima di grandi cambiamenti. Dappertutto.

 

1 L'installazione presentava due pali reggenti i fili di una linea elettrica dai quali penzolavano due pattini a rotelle fusi. Si scopre qui, in questa scena influente, il prezzo simbolico di un progetto produttivo indirizzato in modo lineare al dominio tecnico-industriale sul mondo esterno. Quello che completa l'opera è l'obiettiva visione dell'avventura, della novità e dell'eccentricità innescata dal mondo dell'Ovest produttivo verso quello dell'Oriente creduto (solo) deduttivo, finita con il primo costretto a vivere nell'angoscia di venire risucchiato dall'Oriente più Oriente che c'è: la Cina.

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Signori si nasce?

La passeggiata a mare di Deiva MarinaUna fune. Un oggetto di uso comune che, a seconda della parte dalla quale lo si guarda, dalla terraferma o dal mare, cambia nome.

La corda, quella della campagna e del lavoro contadino; la sagola, in uso presso i marinai.
Corda e sagola sono i simboli rispettivi con i loro concetti e le loro relazioni di due categorie storiche in assoluto contrasto.
Questi due mondi, che si sono dati sempre le spalle, oggi si ritrovano uniti sul nuovo lungomare di Deiva Marina. Corda e sagola non esistono più. Esiste solo la luce che si riflette sulla linea della fune e che ce la restituisce con un aspetto nuovo. Mai come su questa passeggiata terra e mare si combinano fra di loro fino a cambiare dimensione.

Questa atmosfera attira la nostra attenzione con le suggestioni di un mondo lontano: quello fantastico legato ai Transatlantici e al sogno proibito della bella vita.
Protagonista della fantasia, il Transatlantico già dalla sua origine aveva anche provveduto a cambiare dimensione al mare spalancandolo a chi veniva dalla campagna per scoprire l’ America. Per la prima volta sul Transatlantico potevano navigare tanto quelli che sapevano nuotare come quelli che sapevano solo camminare.

Azzerati sul finire degli anni ’70 questi elementi tornano 30 anni dopo sul nuovo lungomare di Deiva Marina.
La passeggiata Cristoforo Colombo è una prosecuzione, perché la sua matrice è la turbonave Michelangelo.
Il ponte rialzato, la soluzione arrotondata delle ringhiere, l’alternanza di spazi semicircolari e rettilinei, il movimento quasi astratto dell’insieme, sono tutti elementi allusivi della grande nave e portano in loro la tradizione della precisione che fa dell’architettura italiana ancora la migliore del mondo.
Ma la passeggiata è anche un risarcimento intellettuale, perché questo lungomare non è una cartolina. Qui c’è sostanza. Questa autenticità è come una restituzione ideale; il mare visto da terra cessa di essere solo paesaggio e la battigia cessa di essere l’ultimo punto della terraferma.
Come accadeva per il ponte del Transatlantico, il lungomare diventa il luogo dello scambio e si spalanca tanto a quelli che sanno nuotare come a quelli che sanno solo camminare.

Impaginato da Capellini come una scenografia teatrale il lungomare si fa set.
Luci e movimento nella notte, dove tutto è possibile ed il ruolo da protagonista viene assegnato alla figura del visitatore che, entrandovi, si carica di eleganza diventando il centro del mondo.

Poi, anche qui, l’architettura irrompe nel futuro; etica e estetica coincidono, Deiva cambia forma e dialoga con l’arte.

Paese che vai stile che trovi. Questo la dice lunga circa la risposta da dare alla domanda contenuta nel titolo. Signori di solito si nasce ma si può anche diventare sotto la riconversione dello stile.
Dove lo stile, quello che oggi stupisce la Liguria, è un segno di supremazia, perché lo stile è l’uomo.

* [ da quotidiano La Nazione settembre 2005]

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